giovedì 15 marzo 2012

BIOGRAFIA DI PAUL VERLAINE Terza parte

 
Il 7 luglio 1872 Verlaine e Rimbaud decisero di partire insieme. Diretti in un primo tempo solo ad Arras e Fampoux, rispediti a Parigi per una smargiassata inventata alla stazione di Arras, ripartiti di nascosto e passata la frontiera belga, raggiunsero a piedi Bruxelles. Per quasi tutto il mese girarono il Belgio.
Nella poesia "Laeti et errabundi" - scritta nel 1888, quando fu messa in giro la falsa notizia della morte di Rimbaud, e pubblicata nella raccolta Parallelamente - Verlaine avrebbe raccontato questo meraviglioso periodo di vagabondaggio, forse la stagione migliore della sua vita, in cui visse una esaltazione d'amore e di vitalità artistica, per quanto i due compagni furono costretti a soffrire sia le ristrettezze economiche sia il biasimo sociale. Riporto di seguito le strofe a mio avviso più significative della suddetta poesia.

...

Andavamo - ve ne ricordate,
viaggiatore scomparso chissà dove? -
filando leggeri nell'aria sottile
come due spettri gioiosi!

Poiché le passioni appagate
insolentemente oltre ogni misura
riempivano di feste le nostre teste
e i sensi, che tutto rassicura,

tutto, la giovinezza, l'amicizia
e i nostri cuori, ah quanto liberi
dalle donne commiserate
e dall'ultimo dei pregiudizi,

lasciando il timore dell'orgia
e lo scrupolo al buon eremita
perché, varcata la soglia,
Ponsard non ammette limiti.

...

Paesaggi, città
posavano per i nostri occhi instancabili;
le nostre belle curiosità
avrebbero mangiato ogni atlante.

Fiumi e monti, bronzi e marmi,
i tramonti d'oro, l'alba magica,
l'Inghilterra, madre degli alberi,
e il Belgio figlio di torrioni,


il mare, terribile e insieme dolce,
ricamavano sull'amato romanzo
cui non lasciava tregua
la nostra anima - e quid nella nostra carne?...

il romanzo di vivere in due uomini
meglio che sposi modello,
ciascuno versando nel mucchio somme
di affetti forti e fedeli.

L'invidia dagli occhi di basilisco
censurava quel modo di quotarsi:
pranzavamo di biasimo pubblico
e cenavamo con la stessa pietanza.

Talvolta anche la miseria
infuriava nel falansterio:
si reagiva col coraggio,
la gioia e le patate.

Scandalosi senza sapere perché
(forse era troppo bello)
la nostra coppia restava serena
come due bravi portabandiera,

serena nell'orgoglio d'essere più liberi
dei più liberi di questo mondo,
sorda ai paroloni di ogni calibro,
inaccessibili al riso immondo.

...

Dicono che siete morto. Il Diavolo
si porti chi la diffonde
la notizia irreparabile
che batte alla mia porta!

Non voglio crederci. Morto, voi,
tu, dio tra i semidei!
Sono pazzi quelli che lo dicono.
Morto, il mio grande peccato radioso,

tutto quel passato che ancora brucia
nelle mie vene e nel mio cervello
e che risplende e sfolgora
sul mio sempre nuovo fervore!

Morto tutto quel trionfo inaudito
che risuonava senza freno né fine
sul motivo mai svanito
scandito dal mio cuore che fu divino.

Ma come! il poema miracoloso
e l'omni-filosofia,
e la mia patria e la mia bohème
morti? Ma andiamo! tu vivi la mia vita!

(Traduzione di Lanfranco Binni)


In Belgio quindi, i due si abbandonarono a un lungo vagabondaggio, segnato da un ultimo effimero tentativo di riappacificazione con Mathilde (un sensuale incontro in un albergo di Bruxelles, che Verlaine avrebbe ricordato nei versi di "Birds in the night"), la quale tentò di convincere il marito a partire insieme per la Nuova Caledonia, dove erano deportati molti amici della Comune. Verlaine seguì la moglie fino alla frontiera belga, ma poi, scesi dal treno per passare la dogana, si rifiutò di proseguire e raggiunse Rimbaud a Bruxelles. I due si trasferirono a Londra, ma il loro rapporto cominciò ben presto a deteriorarsi, soprattutto a causa del comportamento di Verlaine, sempre più ossessionato dai sensi di colpa nei confronti di sua moglie e di suo figlio, e che per questa sofferenza cercava ormai quotidianamente conforto nella bottiglia. 

Nel novembre 1872 Rimbaud tornò a Charleville, e Verlaine ben presto sprofondò nella solitudine, così che si rivolse disperato a sua madre e a sua moglie. Lo raggiunse la madre, accompagnata da Rimbaud. I due poeti ripresero la loro vita in comune. Dopo qualche tempo si separarono nuovamente, per riunirsi poi nel maggio 1873 a Londra. La situazione precipitò agli inizi di luglio, quando Verlaine, offeso da una caustica invettiva del suo compagno, lasciò in tutta fretta la capitale inglese alla volta di Bruxelles. Rimbaud lo rincorse fino al porto, e lo chiamò disperatamente sperando che egli tornasse indietro, ma senza risultato; gli scrisse allora due lettere accorate:

Torna, torna, caro amico, mio solo amico, torna. Ti giuro che sarò buono. Se sono stato sgarbato con te, è stato uno scherzo nel quale mi sono intestardito; me ne pento più di quanto si possa esprimere. Torna, tutto sarà dimenticato. [...]

Solo con me tu puoi essere libero, e, poiché ti giuro d'essere gentile in avvenire, che deploro tutta la mia parte di torto, che io ho infine lo spirito a posto, che ti amo molto, se tu non vuoi ritornare, o non vuoi che ti raggiunga, commetti un crimine, e te ne pentirai per LUNGHI ANNI, per la perdita della tua libertà, sprofondato nella noia più atroce, per tutto quello che hai provato. Dopodiché, ripensa a quello che eri prima di conoscermi. [...]
La sola, unica mia parola è: torna, voglio stare con te, ti amo.

Da Bruxelles, Paul scrisse lettere esaltate a sua madre e a Mathilde, minacciando il suicidio. L'8 luglio chiamò a sé Rimbaud, che arrivò la sera stessa. Seguirono due giorni di ubriachezza e litigi.
A porre definitivamente fine al loro tormentato ménage, fu il celebre assalto con la pistola a Rimbaud da parte di un Verlaine disperato e ubriaco, a causa dell’annunciato abbandono del suo amico, che il poeta di Metz avrebbe poi raccontato nel libro autobiografico, Le mie prigioni (Mes prisons, 1893):

È andata così. Nel luglio 1873, a Bruxelles, per un litigio in strada preceduto da due rivoltellate, di cui la prima aveva ferito in maniera non grave uno degli interlocutori e alle quali essi, due amici, non avevano dato peso, in virtù di un perdono chiesto e concesso seduta stante, - colui che era stato l'autore del deprecabile gesto, del resto in preda all'assenzio prima e dopo, proruppe in un'espressione talmente energica e si frugò nella tasca destra della giacca in cui l'arma, ancora carica di quattro pallottole e con la sicura non innestata, malauguratamente si trovava - e ciò in maniera talmente significativa - che l'altro, preso da paura, fuggì a gambe levate attraverso l'ampia carreggiata (di Hall, se ho buona memoria), inseguito dal forsennato, con sbalordimento dei buoni Belgi che si portavano a spasso la loro flemma pomeridiana sotto un sole dardeggiante. Un vigile urbano che bighellonava da quelle parti non tardò a pizzicare delinquente e testimone. Dopo un interrogatorio assai sommario, nel corso del quale l'aggressore si denunciò più di quanto l'altro non l'accusasse, entrambi, per ingiunzione del rappresentante della forza pubblica, si recarono con lui al municipio, tenendomi il vigile per il braccio, poiché è tempo di dire che ero io l'autore dell'attentato e del tentativo di recidiva, il cui oggetto non risultava essere altri che Arthur Rimbaud, lo strano e grande poeta morto così infelicemente il 23 novembre scorso.

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