giovedì 15 marzo 2012

BIOGRAFIA DI PAUL VERLAINE Terza parte

 
Il 7 luglio 1872 Verlaine e Rimbaud decisero di partire insieme. Diretti in un primo tempo solo ad Arras e Fampoux, rispediti a Parigi per una smargiassata inventata alla stazione di Arras, ripartiti di nascosto e passata la frontiera belga, raggiunsero a piedi Bruxelles. Per quasi tutto il mese girarono il Belgio.
Nella poesia "Laeti et errabundi" - scritta nel 1888, quando fu messa in giro la falsa notizia della morte di Rimbaud, e pubblicata nella raccolta Parallelamente - Verlaine avrebbe raccontato questo meraviglioso periodo di vagabondaggio, forse la stagione migliore della sua vita, in cui visse una esaltazione d'amore e di vitalità artistica, per quanto i due compagni furono costretti a soffrire sia le ristrettezze economiche sia il biasimo sociale. Riporto di seguito le strofe a mio avviso più significative della suddetta poesia.

...

Andavamo - ve ne ricordate,
viaggiatore scomparso chissà dove? -
filando leggeri nell'aria sottile
come due spettri gioiosi!

Poiché le passioni appagate
insolentemente oltre ogni misura
riempivano di feste le nostre teste
e i sensi, che tutto rassicura,

tutto, la giovinezza, l'amicizia
e i nostri cuori, ah quanto liberi
dalle donne commiserate
e dall'ultimo dei pregiudizi,

lasciando il timore dell'orgia
e lo scrupolo al buon eremita
perché, varcata la soglia,
Ponsard non ammette limiti.

...

Paesaggi, città
posavano per i nostri occhi instancabili;
le nostre belle curiosità
avrebbero mangiato ogni atlante.

Fiumi e monti, bronzi e marmi,
i tramonti d'oro, l'alba magica,
l'Inghilterra, madre degli alberi,
e il Belgio figlio di torrioni,


il mare, terribile e insieme dolce,
ricamavano sull'amato romanzo
cui non lasciava tregua
la nostra anima - e quid nella nostra carne?...

il romanzo di vivere in due uomini
meglio che sposi modello,
ciascuno versando nel mucchio somme
di affetti forti e fedeli.

L'invidia dagli occhi di basilisco
censurava quel modo di quotarsi:
pranzavamo di biasimo pubblico
e cenavamo con la stessa pietanza.

Talvolta anche la miseria
infuriava nel falansterio:
si reagiva col coraggio,
la gioia e le patate.

Scandalosi senza sapere perché
(forse era troppo bello)
la nostra coppia restava serena
come due bravi portabandiera,

serena nell'orgoglio d'essere più liberi
dei più liberi di questo mondo,
sorda ai paroloni di ogni calibro,
inaccessibili al riso immondo.

...

Dicono che siete morto. Il Diavolo
si porti chi la diffonde
la notizia irreparabile
che batte alla mia porta!

Non voglio crederci. Morto, voi,
tu, dio tra i semidei!
Sono pazzi quelli che lo dicono.
Morto, il mio grande peccato radioso,

tutto quel passato che ancora brucia
nelle mie vene e nel mio cervello
e che risplende e sfolgora
sul mio sempre nuovo fervore!

Morto tutto quel trionfo inaudito
che risuonava senza freno né fine
sul motivo mai svanito
scandito dal mio cuore che fu divino.

Ma come! il poema miracoloso
e l'omni-filosofia,
e la mia patria e la mia bohème
morti? Ma andiamo! tu vivi la mia vita!

(Traduzione di Lanfranco Binni)


In Belgio quindi, i due si abbandonarono a un lungo vagabondaggio, segnato da un ultimo effimero tentativo di riappacificazione con Mathilde (un sensuale incontro in un albergo di Bruxelles, che Verlaine avrebbe ricordato nei versi di "Birds in the night"), la quale tentò di convincere il marito a partire insieme per la Nuova Caledonia, dove erano deportati molti amici della Comune. Verlaine seguì la moglie fino alla frontiera belga, ma poi, scesi dal treno per passare la dogana, si rifiutò di proseguire e raggiunse Rimbaud a Bruxelles. I due si trasferirono a Londra, ma il loro rapporto cominciò ben presto a deteriorarsi, soprattutto a causa del comportamento di Verlaine, sempre più ossessionato dai sensi di colpa nei confronti di sua moglie e di suo figlio, e che per questa sofferenza cercava ormai quotidianamente conforto nella bottiglia. 

Nel novembre 1872 Rimbaud tornò a Charleville, e Verlaine ben presto sprofondò nella solitudine, così che si rivolse disperato a sua madre e a sua moglie. Lo raggiunse la madre, accompagnata da Rimbaud. I due poeti ripresero la loro vita in comune. Dopo qualche tempo si separarono nuovamente, per riunirsi poi nel maggio 1873 a Londra. La situazione precipitò agli inizi di luglio, quando Verlaine, offeso da una caustica invettiva del suo compagno, lasciò in tutta fretta la capitale inglese alla volta di Bruxelles. Rimbaud lo rincorse fino al porto, e lo chiamò disperatamente sperando che egli tornasse indietro, ma senza risultato; gli scrisse allora due lettere accorate:

Torna, torna, caro amico, mio solo amico, torna. Ti giuro che sarò buono. Se sono stato sgarbato con te, è stato uno scherzo nel quale mi sono intestardito; me ne pento più di quanto si possa esprimere. Torna, tutto sarà dimenticato. [...]

Solo con me tu puoi essere libero, e, poiché ti giuro d'essere gentile in avvenire, che deploro tutta la mia parte di torto, che io ho infine lo spirito a posto, che ti amo molto, se tu non vuoi ritornare, o non vuoi che ti raggiunga, commetti un crimine, e te ne pentirai per LUNGHI ANNI, per la perdita della tua libertà, sprofondato nella noia più atroce, per tutto quello che hai provato. Dopodiché, ripensa a quello che eri prima di conoscermi. [...]
La sola, unica mia parola è: torna, voglio stare con te, ti amo.

Da Bruxelles, Paul scrisse lettere esaltate a sua madre e a Mathilde, minacciando il suicidio. L'8 luglio chiamò a sé Rimbaud, che arrivò la sera stessa. Seguirono due giorni di ubriachezza e litigi.
A porre definitivamente fine al loro tormentato ménage, fu il celebre assalto con la pistola a Rimbaud da parte di un Verlaine disperato e ubriaco, a causa dell’annunciato abbandono del suo amico, che il poeta di Metz avrebbe poi raccontato nel libro autobiografico, Le mie prigioni (Mes prisons, 1893):

È andata così. Nel luglio 1873, a Bruxelles, per un litigio in strada preceduto da due rivoltellate, di cui la prima aveva ferito in maniera non grave uno degli interlocutori e alle quali essi, due amici, non avevano dato peso, in virtù di un perdono chiesto e concesso seduta stante, - colui che era stato l'autore del deprecabile gesto, del resto in preda all'assenzio prima e dopo, proruppe in un'espressione talmente energica e si frugò nella tasca destra della giacca in cui l'arma, ancora carica di quattro pallottole e con la sicura non innestata, malauguratamente si trovava - e ciò in maniera talmente significativa - che l'altro, preso da paura, fuggì a gambe levate attraverso l'ampia carreggiata (di Hall, se ho buona memoria), inseguito dal forsennato, con sbalordimento dei buoni Belgi che si portavano a spasso la loro flemma pomeridiana sotto un sole dardeggiante. Un vigile urbano che bighellonava da quelle parti non tardò a pizzicare delinquente e testimone. Dopo un interrogatorio assai sommario, nel corso del quale l'aggressore si denunciò più di quanto l'altro non l'accusasse, entrambi, per ingiunzione del rappresentante della forza pubblica, si recarono con lui al municipio, tenendomi il vigile per il braccio, poiché è tempo di dire che ero io l'autore dell'attentato e del tentativo di recidiva, il cui oggetto non risultava essere altri che Arthur Rimbaud, lo strano e grande poeta morto così infelicemente il 23 novembre scorso.

mercoledì 14 marzo 2012

BIOGRAFIA DI PAUL VERLAINE Seconda parte


Nel 1869 Verlaine conobbe la graziosa Mathilde Mauté de Fleurville (nella foto a sinistra), in casa dell'amico musicista Charles de Sivry, che era il fratellastro della ragazza. Egli ne rimase subito impressionato, e intravedendo in lei la possibilità di creare una situazione affettiva sana e serena che avrebbe placato le proprie intemperanze, decise di sposarla, così, mentre si trovava nella campagna di Fampoux, scrisse a Sivry per chiedere la mano di Mathilde. Cominciò allora una corrispondenza, e fu proprio la lontananza di questo periodo, la quale esasperò e rese ulteriormente gravida di aspettative l'attesa di un felice riscontro reale dei propri propositi di vita coniugale, che portò Verlaine alla composizione della maggior parte delle liriche che sarebbero poi confluite ne La buona canzone (La Bonne Chanson), opera che egli avrebbe dedicato alla sua sposa diciassettenne. Il matrimonio fu celebrato l'11 agosto 1870. La coppia andò a vivere in rue du Cardinal Lemoine.

Nel 1871 gli episodi della Comune di Parigi videro Verlaine come partecipante alquanto attivo al fianco dei rivoltosi, ma quando l'ordine fu ristabilito, temendo delle ripercussioni, il poeta e sua moglie si trasferirono per qualche tempo a Fampoux. Rientrarono a Parigi alla fine di agosto, quando il pericolo sembrava scampato. Verlaine ormai non aveva più un lavoro, così la coppia si spostò a casa dei genitori di Mathilde.

Nei primi giorni di settembre del ‘71 arrivò da Charleville una lettera - inoltrata da una losca conoscenza paesana di Verlaine, Bretagne - firmata Arthur Rimbaud, a cui erano allegate otto sue poesie.
 
[...] Ho il progetto di realizzare un grande poema, e a Charleville non mi è possibile lavorare. La mia mancanza di denaro mi impedisce di venire a Parigi. Mia madre è vedova ed estremamente devota. Non mi dà che dieci centesimi tutte le domeniche per pagare la mia sedia in chiesa. [...]
                                                                                                            
                                                                                                         Arthur Rimbaud
 
Paul Verlaine rimase incantato dal talento del giovane poeta, così che rispose con toni entusiastici invitandolo a Parigi, accludendo alla lettera il denaro per raggiungerlo.

[...] Venite, cara grande anima, vi si chiama, vi si attende. [...]

                                                                                                  Paul Verlaine

Il 10 settembre il quasi diciassettenne Rimbaud arrivò in casa Mauté, offrendo a Verlaine il suo ultimo lavoro, la splendida poesia "Il battello ebbro" (Le bateau ivre). Nel saggio che egli avrebbe dedicato a Rimbaud nel suo celebre libro I poeti maledetti, Verlaine offre questa appassionata e sagace descrizione di come l'imberbe e ribaldo Rimbaud si presentò innanzi ai suoi occhi:

All'epoca relativamente lontana della nostra intimità, M. Arthur Rimbaud era un ragazzo tra i sedici e i diciassette anni, già provvisto di tutto il bagaglio poetico che il vero pubblico dovrebbe conoscere, e che noi proveremo ad analizzare con quante più citazioni ci saranno possibili. L'uomo era alto, ben piantato, alquanto atletico, dal viso perfettamente ovale di angelo in esilio, con dei capelli spettinati sul castano chiaro e degli occhi d'un azzurro inquietante. Nativo delle Ardenne, possedeva, oltre a un delizioso accento paesano perduto troppo presto, il dono di una pronta assimilazione proprio della gente dei suoi luoghi, - e ciò potrebbe spiegare il rapido inaridirsi, sotto lo stolto cielo di Parigi, della sua vena, per dirla come i nostri padri il cui linguaggio diretto e corretto non aveva sempre torto, alla fine dei conti!

L'atteggiamento audace e sfrontato del nuovo ospite, non mancò di destare stupore e una certa indignazione nell'ambiente borghese di casa Mauté, così che già il 25 settembre Verlaine fu costretto a chiedere a Banville di trovare un alloggio per il suo giovane amico. Da allora in avanti Rimbaud sarebbe stato ospitato a turno da diversi amici di Paul; la sistemazione più durevole fu in quella camera di rue Campagne-Première evocata da Verlaine in una poesia. Questa racconta come tra i due poeti fosse cominciata una relazione che trascendeva la pura amicizia: essa sfociò infatti in un sublime e viscerale incontro tra due difficili entità umane, alla continua e disperata ricerca di un'inesplicabile percorso in cui i sensi potessero liberarsi ed elevarsi dai rovi delle convenzioni e delle contingenze, confrontandosi anche nella dimensione sessuale. La poesia sarebbe in seguito stata inclusa nella raccolta Un tempo e poco fa.
 

"Versi per essere calunniato" 

Stasera mi sono chinato sul tuo sonno.
Il tuo corpo riposava casto sull’umile letto,
ed ho visto, come chi si concentri e legga,
ah! ho visto come tutto è vano sotto il sole.

Che si viva, oh che delicata meraviglia,
tanto il nostro corpo è un fiore che appassisce.
Oh pensiero che porta alla follia!
Va', povero, dormi! Io, sgomento per te, sto sveglio.

Ah! miseria d’amarti, mio fragile amore
che vai respirando come si spira un giorno!
Oh sguardo fermo che la morte renderà tale!

Oh bocca che ride in sogno sulla mia bocca,
in attesa dell’altra risata più feroce!
Presto, svegliati. Di’, l’anima è immortale?

(Traduzione di Andrea Giampietro)


La relazione tra i due poeti sconvolse immediatamente il matrimonio di Verlaine, e la nascita di suo figlio Georges, il 30 ottobre, placò la tensione familiare solo per pochi giorni. Ormai senza più lavoro, Verlaine usava tornare tardi a casa, e in preda ai fumi dell'alcool si scatenava spesso in scenate di violenza contro la povera Mathilde; in un'occasione, più bonariamente, dimostrò il suo disprezzo coricandosi accanto a sua moglie col cilindro in testa, e con le scarpe infangate poggiate sul cuscino. Rimbaud non si dimostrò da meno, quando durante una lettura di versi a una cena del club letterario "Les Vilains Bonshommes", diede in escandescenza ferendo lievemente il fotografo Carjat.


Divenuta impossibile la vita con suo marito, il quale aveva addirittura tentato di strangolarla, Mathilde decise di lasciare la casa e si rifugiò col bambino a Périgueux. Dopo la partenza della moglie, Verlaine andò ad abitare con Rimbaud nella camera di rue Campagne-Première, fino alla prima metà di marzo del 1872. Pentito, Paul scrisse una lettera a Mathilde in cui le chiedeva perdono. Rimbaud tornò allora a Charleville per permettere ai due sposi di ricongiungersi. Verlaine e sua moglie tornarono insieme, ma presto ricominciarono gli screzi, soprattutto dopo il ritorno di Rimbaud, il 18 maggio. In questo periodo Verlaine scrisse la maggior parte delle "Ariette dimenticate" (Ariettes oubliées), che avrebbero costituito la parte iniziale della sua meravigliosa opera Romanze senza parole (Romances sans paroles). Ecco la poesia che apre la raccolta, e che con la sua dolce e languida sensualità, sottilmente evocativa, appare significativa rispetto a quella che sarà l'atmosfera dell'intera raccolta.


è la stanchezza amorosa,
è ogni fremito dei boschi
nell’abbraccio delle brezze,
è, fra le fronde grigie,
il coro delle piccole voci.

O fragile e fresco mormorio!
Cinguetta e sussurra,
sembra il dolce grido
che l’erba mossa esala...
Diresti, sotto l’acqua che vira,
il sordo rollio dei ciottoli.

Quest’anima che si lamenta
in un gemito sonnolento
è la nostra, non è vero?
La mia, dimmi, e la tua,
diffondono l’umile antifona
lievemente, nella tiepida sera?

(Traduzione di Andrea Giampietro)

BIOGRAFIA DI PAUL VERLAINE Prima parte




Non c'è modo migliore, per introdurre un animo poetico così estremo, puro e contraddittorio come quello di Paul Verlaine, se non quello di presentarlo con le parole con cui ha voluto dipingerlo il suo compagno di maledizione, il suo «grande peccato radioso», come ebbe a dire lo stesso Verlaine:
 

Ascoltiamo la confessione di un compagno d'inferno:
«O divino Sposo, mio Signore, non rifiutate la confessione della più triste fra le vostre serve. Sono perduta. Sono ubriaca. Sono impura. Che vita!
«Perdono, divino Signore, perdono! Ah! perdono! Quante lacrime. E quante lacrime più tardi, spero!
«Più tardi conoscerò il divino Sposo! Sono nata sottomessa a Lui. - L'altro può picchiarmi, adesso!
«Per ora, sto in fondo al mondo! O amiche mie!... no, non amiche mie... Mai deliri né torture simili... Com'è stupido!
«Ah! soffro, grido. Soffro veramente. Eppure tutto mi è permesso, carica del disprezzo dei più miserabili cuori.
«Insomma, facciamo dunque questa confidenza, a costo di doverla ripetere altre venti volte, - non meno squallida, non meno insignificante!
«Sono schiava dello Sposo infernale, quello che ha dannato le vergini folli. Proprio lui, quel demonio. Non è uno spettro, non è un fantasma. Ma io che ho perduto la saggezza, che sono dannata e morta per il mondo - non mi uccideranno! - Come descriverlo! Non so più neppure parlare. Sono in lutto, piango, ho paura. Un po' di refrigerio, Signore, se volete, se appena volete!
«Io sono vedova... - Ero vedova... - ma sì, sono stata molto seria, un tempo, e non sono nata per diventare scheletro!... - Lui era quasi un bambino... Le sue delicatezze misteriose mi avevano sedotta. Ho dimenticato tutti i miei doveri umani per seguirlo. Che vita! La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo. Io vado dove va lui, è necessario. E spesso va in collera con me, me, la povera anima. Demonio! - È un demonio, sapete, non è un uomo.

In questo capitolo di Una stagione all'inferno (l'unica opera la cui pubblicazione fu curata, almeno nella fase iniziale, dall'autore stesso, nel 1873), Arthur Rimbaud fa parlare appunto il suo mentore come un invasato mendicante di affetto - quello che poi egli è stato in realtà - che supplica, maledice e invoca audacemente il proprio ideale di amore e di distruzione con un tono che attraversa in modo esaltato più registri, dal febbrile all'estatico. Rimbaud si innamorò di Verlaine per la sua straordinaria leggerezza poetica (in una lettera del 25 agosto 1870 al suo professore Georges Izambard, egli racconta le meravigliose impressioni che in lui ha destato la lettura della raccolta verleniana, Feste galanti: «È qualcosa di molto bizzarro, di stranissimo; ma in realtà adorabile!») e fu invece per la terribile pesantezza che Verlaine infondeva nella sua esistenza, così tesa all'autodistruzione, che poi lo volle fermamente abbandonare. Furono compagni di arte e di bagordi, ma soprattutto amanti nel modo più puro e completo; però, in quanto uomini rimasti prigionieri della loro stessa arte, nel loro eterno conflitto tra lo stato ideale della poesia - in cui erano padroni - e quello imperfetto, misero e fugace della realtà - in cui erano reietti -, finirono con lo scagliarsi contro il mondo, ritirandosi in un rapporto esclusivo, in cui l'uno eleggeva l'altro a proprio salvatore, quando entrambi in realtà stavano affogando, così che invece di salvarsi, rischiarono per poco di distruggersi a vicenda.

Paul-Marie Verlaine era nato a Metz, capitale della Lorena, il 30 marzo 1844. Suo padre, Nicolas Auguste Verlaine di Bertrix, capitano del genio, e sua madre, Elisa-Stéphanie Dehée, di famiglia di agricoltori, non erano più giovani al momento della sua nascita, la quale fu accolta con estremo piacere, dopo che la coppia aveva subito il dolore di tre aborti. Il figlio tanto desiderato fu però - proprio per questo, anzi - oggetto di un gran numero di attenzioni e di aspettative, le quali pesarono sul suo carattere in modo da debilitarne l'autostima e accrescere il suo bisogno d'un riscontro affettivo, con chiunque e in ogni situazione. Nel 1851 la famiglia si trasferì a Parigi, dove il giovane Paul ebbe modo di cominciare i suoi studi, precisamente nel collegio Landry. Fondamentale nella sua infanzia sarebbe stata la presenza della cugina Élisa Moncomble, rimasta orfana ed allevata in casa; per la dolce e attraente ragazza egli sviluppò un particolare e audace affetto. Con profonda tristezza infatti egli accolse la notizia del suo matrimonio, avvenuto nel 1861, nonostante, a partire dall'agosto dell'anno seguente, visse nella casa di Élisa e di suo marito, indimenticabili vacanze trascorse tra letture, caccia e passeggiate. Fu questo però il periodo in cui Verlaine, scontento di se stesso e del suo insuccesso sociale, cominciò a bere.

Fondamentale per la formazione artistica del giovane Paul, fu la lettura di Baudelaire, cominciata per caso negli anni di liceo. Così egli avrebbe ricordato questo incontro nel suo scritto autobiografico, Confessioni (Confessions, 1895):

Le mie prime letture o per essere precisi la mia prima, primissima lettura fu [...] Les fleurs du mal, prima edizione, che un istitutore aveva sbadatamente lasciato sulla cattedra e che io non mi feci scrupolo di confiscare. Inutile dire che non avevo alcuna idea di questo genere di poesia, così fuori dalla mia portata a quella età, che pur nutrivo di misurati "brani scelti"... Persino il titolo mi rimase a lungo inaccessibile e divorai il libro senza capire nient'altro se non che parlava di "perversità" (come si dice nei collegi per fanciulle) e talvolta di... nudità, duplice attrattiva per la mia giovane "corruzione", - ed ero fermamente persuaso che il libro si chiamasse, molto semplicemente, Les fleurs de mai (I fiori di maggio, N.d.T.). Come che sia, Baudelaire ebbe su di me in quel periodo un'influenza se non altro di imitazione infantile e con tutte le sue possibili variazioni, eppure fu un'influenza reale e non poteva che crescere e, insomma, guadagnare in chiarezza e in logica.

Si iscrisse poi alla facoltà di legge; prese inoltre lezioni di matematica, nell’intenzione di partecipare al concorso per il Ministero delle Finanze. Nell'estate del 1863 Verlaine pubblicò il suo primo sonetto, "Monsieur Prudhomme" (firmandosi come Pablo), su " La Revue du Progrès", fondata quello stesso anno da Louis Xavier de Ricard, la cui madre, marchesa de Ricard, accolse il giovane poeta nel suo salotto aristocratico e letterario. Qui egli conobbe Théodore de Banville, Auguste de Villiers de L'Isle-Adam, François Coppée e gli altri poeti che avrebbero formato il "Parnasse contemporain", gruppo letterario che avrebbe realizzato tre volumi di un nuovo genere di poesia, pubblicati dall'editore Alphonse Lemerre. Così il critico napoletano Vittorio Pica (1862-1930), sintetizzò i principi della poesia "parnassiana":
 
Infine, in opposizione al lirismo ispirato, tempestoso e scompigliato di Lamartine e di Musset, ai quali poco stava a cuore la ricchezza della rima e la sonora armonia dei ritmi, i Parnassiani, seguendo l'esempio di Gautier e di Leconte de Lisle, volevano bandita la passione dai canti dei poeti ed aspiravano ad un ideale di bellezza plastica, ad una fredda e splendida rigidità marmorea, ad un superbo ed impassibile oggettivismo.

Sette delle poesie di Verlaine sarebbero state pubblicate nel IX fascicolo del "Parnasse contemporain" (1866). Il suo stile, seppur affinatosi a partire dalla tecnica di questa scuola poetica, si sarebbe poi distinto per una portata emotiva e una espressione musicale assolutamente distintivi e originali.

Nel 1864 la famiglia Verlaine cominciò a versare in pessime condizioni finanziarie, e la salute del padre divenne malferma. Egli si decise allora ad abbandonare gli studi giuridici, accettando di impiegarsi, dapprima in una compagnia di assicurazioni, poi presso l'amministrazione del Municipio di Parigi. Frequenti erano divenute le sue frequentazioni del Café du Gaz: bere era ormai diventato un vizio. Il 30 dicembre 1865 morì suo padre. Verlaine era passato nel frattempo alla Prefettura della Senna, con uno stipendio discreto.

Nel novembre del 1866, grazie all'aiuto economico di sua cugina Élisa, Verlaine poté pubblicare la sua prima raccolta poetica, dal titolo Poesie saturnine (Poèmes saturniens), edita da Lemerre. In essa cominciava a delinearsi quello che, con la maturità, sarebbe divenuto il suo personale stile: le parole vengono sciolte dal poeta in gocce di musica, i versi così si trovano proiettati su di un pentagramma, e la poesia non diventa altro che un armonioso e seducente invito ad abbandonarsi alla corrente della memoria e dei sensi, come traspare, in maniera elegantissima, nella celebre poesia "Il mio sogno familiare" (Mon rêve familier):

d’una donna sconosciuta, che io amo, e che mi ama,
e che ogni volta non è mai davvero la stessa
né mai davvero un’altra, e mi ama e mi comprende.

Poiché ella mi comprende, il mio cuore limpido
per lei sola, ahimè!, non è più un problema,
per lei sola, e la mia umida fronte impallidita
solo lei sa rinfrescarla, quando piange.

È lei bruna, bionda o rossa? Lo ignoro.
Il suo nome? Ricordo che è dolce e sonoro,
come quelli dei cari che la vita ha esiliato.

Il suo sguardo è come quello delle statue,
e la sua voce, lontana, calma e grave,
ha l’inflessione delle voci amate e ormai mute.

(Traduzione di Andrea Giampietro)

Il 16 febbraio 1867 sua cugina Élisa morì a Lécluse; Verlaine arrivò tardi al funerale, e trascorse tre giorni disperati ad ubriacarsi, destando scandalo in famiglia e nel paese. Tornato a Parigi, cominciò a bere l'assenzio. Nel 1868 prese a frequentare il salotto bohèmien di Nina de Villard, ex contessa di Callias, in cui vi ritrovò gran parte degli ospiti del salotto Ricard. Nel marzo dell'anno seguente uscì da Lemerre il volumetto, Feste galanti (Fêtes galantes). Questa raccolta è singolare, in quanto si propone come delizioso affresco di una realtà magica e irreale, in cui dietro maschere carnevalesche e ambientazioni arcadiche, si racconta il languore di una sussurrata, tenera e quasi nostalgica passione d'amore. Riporto di seguito una delle più celebri poesie della raccolta:

"Gli ingenui"

Gli alti tacchi con le lunghe gonne lottavano,
sì che secondo il vento o il terreno, un polpaccio -
immancabilmente intercettato! - lampeggiava;
ci piaceva quel gioco d'essere presi al laccio.

Oppure il pungiglione d'un insetto geloso
molestava dai rami il collo delle belle,
ed erano bagliori di nuche bianche, un goloso
banchetto che riempiva i nostri occhi folli.

La sera discendeva, equivoca sera autunnale:
le belle trasognate, al nostro braccio appese,
dissero a bassa voce così speciose parole
che l'anima da allora ne trema e si stupisce.

(Traduzione di Lanfranco Binni)

La sua rivoluzione stilistica, sia per quanto riguarda la metrica dei suoi versi sia per il carattere più intimamente espressivo della sua poetica, viene perfettamente riconosciuta e analizzata nelle pagine che Joris Karl Huysmans gli dedicò nel suo celebre romanzo Controcorrente (À rebours), del 1884, il quale avrebbe contribuito non poco ad accrescere la fama di Verlaine nei suoi ultimi dieci anni di vita:


Avvalendosi come rima di forme che il verbo assume nella sua flessione, talvolta persino di lunghi avverbi, traboccanti da un monosillabo come dall'orlo d'una pietra una pesante massa d'acqua, il suo verso, spezzato da inverosimili cesure, diventava spesso singolarmente astruso per l'audacia delle elissi e per strane scorrettezze non prive tuttavia di grazia. Signore come nessuno della metrica, aveva cercato di ringiovanire le forme poetiche a schema fisso [...] Ma la sua originalità risiedeva principalmente in questo: nell'aver saputo rendere vaghe e squisite confidenze, scambiate sottovoce nel crepuscolo. Lui solo era riuscito a suggerire certe conturbanti intimità dell'anima, pensieri men che sussurrati, confessioni così a fior di labbro ed interrotte che l'orecchio di chi le percepisce resta esitante, mentre nell'anima gli si diffonde un languore avvivato dal mistero di quel soffio, più che udito, indovinato.


martedì 13 marzo 2012

TANTO VALE VIVERE



Deliziosamente piccola, spaventosamente miope, mortalmente sarcastica e irreversibilmente alcolizzata, Dorothy Parker (1893-1967) è stata una grande narratrice del Novecento americano, dalla gloriosa e spericolata età del jazz (quando animava il bizzarro circolo di intellettuali che si riuniva all'hotel Algonquin di New York) fino ai turbolenti anni Cinquanta, quando imperversavano la rivolta dei costumi giovanili e la persecuzione politica della commissione McCarthy (anche lei fu indagata per essere stata una simpatizzante del Partito comunista). Fu scrittrice di racconti e poetessa, critico letterario e teatrale, fu anche reporter di guerra (nel '37 si recò in Spagna per raccontare la tragedia della guerra civile), ma resta soprattutto la più grande umorista del suo tempo (e non solo). La vittima preferita del suo spirito mordace?... Se stessa, ovviamente!

Questa poesia, dal titolo Canto di guerra, fu scritta per il suo secondo marito, l'attore e sceneggiatore Alan Campbell, quando venne arruolato per combattere nella Seconda Guerra mondiale.


Soldato, in una terra strana
al di là del mare ondeggiante,
cogli il suo sorriso, prendile la mano -
non sentirti in colpa per me.

Soldato, esistono soldati sinceri?
Se lei è dolce, gentile e amabile,
sfrutta l'augurio che ti mando -
sino al mattino non giacere solo.

Soltanto, per le notti che furono,
soldato, e le albe che verranno,
quando nel sonno ti rivolgi a lei
chiamala col mio nome.

(Traduzione di Andrea Giampietro)

Demain, dès l'aube…


Questa poesia fu scritta dal celebre poeta e romanziere Victor Hugo per sua figlia Léopoldine, morta annegata all'età di diciannove anni. Il componimento fu inserito nella raccolta Les Contemplations (1856).


Domani, all'alba
di Victor Hugo

Domani, all'alba, quando i campi imbiancano,
partirò. Vedi, io so che tu m'attendi.
Andrò per la foresta, andrò per la montagna.
Non posso più stare a lungo lontano da te.

Camminerò, gli occhi fissi sui miei pensieri,
senza vedere niente, senza sentire rumori,
solo, ignoto, schiena curva, mani incrociate,
triste, e il giorno per me sarà come la notte.

Non guarderò né l'oro della sera che scende
né i veli che verso Honfleur cadono lontano
e quando arriverò, metterò sulla tua tomba
un mazzo di verde agrifoglio e l'erica fiorita.

(Traduzione di Andrea Giampietro)

domenica 11 marzo 2012

O Venus regina Cnidi Paphique...


Curiosamente, nella mentalità della gente l'amore per i giovinetti è associato all'idea di violenza. Per la gente, un satiro non può essere che un sadico. Tony Duvert ricorda a giusto titolo che esistono infinitamente più genitori che martirizzano i proprio figli che non pederasti che sgozzano i loro piccoli amanti (T. Duvert, Le Bon Sexe illustré, Parigi, 1974). Ciò nonostante, la società adulta crede o finge di credere che gli amori infantili comincino con un bacio per concludersi necessariamente con una coltellata. Ne deriva il terrore nel quale le sventurate creature sono allevate, l'atmosfera di diffidenza in cui sono confinate dai genitori, dagli educatori: divieto di rivolgere la parola a uno sconosciuto, divieto di accettare da uno sconosciuto un invito in piscina o al cinema: «Non dovete mai seguire uno sconosciuto estremamente gentile. E' una trappola. Se insiste e vi insegue, gridate, chiamate aiuto» (Encyclopédie de la vie sexuelle, Parigi, 1973). Lo sconosciuto, ecco il nemico. Non dovete mai seguire uno sconosciuto estremamente gentile; in compenso, bisogna seguire da bravi, con docilità, i vecchi conoscenti, i parenti, i professori, anche se non sono affatto gentili, anche se vi mollano qualche sberla, anche se vi schiacciano, se vi impediscono di respirare, di vivere, di essere felici. Gli adulti che non amano i bambini non sopportano che i bambini siano amati da coloro che li amano. Un bambino non può disporre né del proprio cuore, né del proprio corpo, né del proprio amore, né dei propri baci. Un bambino appartiene ai genitori e agli insegnanti. Essi ne hanno l'uso esclusivo. Tuttavia, siamo noi a essere accusati di sottrazione di minore da quei nauseabondi personaggi.
[...] L'adolescenza è un età in cui un ragazzo ha sete di contatti sessuali. La società adulta non ha alcun diritto di impedirgli di estinguere questa sua sete. Come scrive Alexandre Neill «non conosco nessun argomento contro la libertà sessuale degli adolescenti che meriti di essere preso in considerazione. Quasi tutti sono basati su emozioni represse e sull'odio della vita» (A.S. Neill, Libres enfants de Summerhill, Parigi, 1973). Ogni tanto, un marito ammazza la moglie. Questo fastidioso incidente non rimette affatto in causa, nella mentalità dei borghesi, l'istituzione del matrimonio. Se ogni tanto accade che un malato mentale strangoli un ragazzetto, ciò non significa che quegli stessi borghesi siano autorizzati a incolpare tutti i pederasti, privando i figli della gioia di essere iniziati al piacere, l'unica «educazione sessuale» che non sia una menzogna o una fesseria. O Venus, regina Cnidi Paphique...

                                               (Gabriel Matzneff, I minori di sedici anni, SE, Milano, 1994)



                                                                           Foto scattata dal barone Wilhelm von Gloeden


Dalle ODI di Orazio (Libro I, n. 30)

O Venere che regni su Pafo e Cnido
sprezza la diletta Cipro, raggiungi
lo splendido altare che in Glicera
con molto incenso t'invoca.

Rapida corri insieme alle Grazie discinte
e al fanciullo ardente e alle Ninfe,
e a Giovinezza, senza te poco amabile,
e a Mercurio.

(Traduzione di Andrea Giampietro)
                                                                                                         
                                                                                                    

LA GRANDEZZA DEL SILENZIO

di Emily Dickinson

Temo l'uomo dal discorso frugale -
temo l'uomo taciturno -
l'arringatore - posso superarlo -
il chiacchierone - intrattenerlo -

Ma colui che pondera - mentre tutti -
spendono fino all'ultimo centesimo -
di quest'uomo - sono diffidente -
temo che egli sia grande -

(Traduzione di Andrea Giampietro)